Basta violenza sulle donne, partiamo dai luoghi di lavoro

Il 25 novembre celebreremo la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne. Dall’inizio dell’anno in Italia sono morte già 105 donne. Un numero impressionante. Inaccettabile.

Gli ultimi dati nazionali della polizia sono impietosi. Dei 106 omicidi di donne nel 2023 (al 19 novembre) su 295 totali, 87 (su 130) sono stati commessi in ambito familiare-affettivo e 55 da partner o ex partner (su 60). Nel 52 per cento dei casi è stato il marito o il convivente, nel 14 per cento l’ex, come anche un soggetto con il quale la vittima aveva una relazione extraconiugale.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo aveva scritto a chiare lettere già lo scorso anno che

«la violenza di genere, nelle sue infinite declinazioni, dalla violenza fisica, psicologica, economica, fino all’odierna violenza digitale, mina la dignità, l’integrità mentale e fisica e, troppo spesso, la vita di un numero inestimabile di donne, molte delle quali, sovente, non si risolvono a sporgere denuncia».

I PASSI AVANTI DELL’UE CON LA CONVENZIONE DI ISTANBUL

Il 10 maggio scorso, il Parlamento europeo ha votato a favore dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. Si è trattato di un voto molto importante perché la Convenzione è il primo testo internazionale che definisce giuridicamente la violenza contro le donne e stabilisce un quadro completo di misure giuridiche e politiche per prevenire tale violenza, sostenere le vittime e punire gli autori.

Ora l’Europa deve passare dalle parole ai fatti e fare tutto il possibile per fermare la violenza sulle donne che ogni anno colpisce 62milioni di cittadine.

Nessuna democrazia può dirsi completa finché le donne non partecipano a pieno titolo al processo decisionale, in famiglia e nella comunità.

Le varie crisi che si sono succedute in questi anni, la pandemia del Covid-19, passando per l’attacco armato della Russia all’Ucraina e la crisi economica inflazionistica che ne è seguita, fino ad arrivare all’attuale guerra a Gaza, hanno amplificato le disuguaglianze di genere, evidenziando sfide persistenti che è arrivato il momento di affrontare con coraggio.

ELIMINARE STEROTIPI E PARADIGMI DI GENERE

Personalmente, parto sempre dalla condizione delle donne negli ambienti di lavoro. Il lavoro infatti è essenziale per costruire e maturare una propria indipendenza ed emanciparsi.

In questi anni di lavoro al Parlamento europeo, ho portato avanti numerose battaglie per ridurre il divario di genere nei contesti di cura e lavoro, così come nei processi decisionali.

È urgente scardinare stereotipi di genere e paradigmi che vedono e fanno sentire le donne troppo spesso come un costo per le aziende o le pubbliche amministrazioni, e in generale per la società, quando invece andrebbero valorizzate nel loro essere differenti e nel valore aggiunto che solo loro sanno produrre e sanno dare.

Sono da sempre convinta che solo mutando quei paradigmi e quegli schemi consolidati che vedono da anni e anni oramai le donne sempre uno «scalino» al di sotto gli uomini nel mercato del lavoro e negli ambienti di lavoro potremmo garantire alle ragazze e alle donne europee e italiane una partecipazione vera, una partecipazione piena nella nostra società.

PERSISTE UN FORTE DIVARIO RETRIBUTIVO

Nel complesso, in Europa, le donne guadagnano il 12,7 per cento in meno degli uomini.

Pensate che in Estonia si arriva a superare il 20 per cento, in Austria a superare il 18 per cento, in Germania si attesta al 17,6 per cento mentre in Italia, secondo i dati Eurostat 2021, il divario salariale di genere si attesta al 5 per cento, otto punti percentuali in meno rispetto alla media europea.

IL DATO PER L’ITALIA

Il cinque per cento per l’Italia  però non è una buona notizia. I dati Eurostat 2021 infatti hanno dei limiti importanti. Non tengono conto di:

  • paghe orarie
  • tasso di occupazione femminile
  • numero delle ore lavorate

Il cosiddetto gender overall earning gap invece tiene conto di tutti questi elementi e consente di fotografare nel dettaglio e con maggiore precisione il divario salariale di genere nel nostro Paese.

Le paghe orarie infatti è noto che soprattutto in determinati settori oggi sono al di sotto di un salario minimo dignitoso. Il tasso di occupazione femminile ha raggiunto il 48 per cento, meno della metà del totale degli occupati. Di fatto, quindi, una donna su due non lavora.

Infine, le donne italiane lavorano in media 33 ore alla settimana contro il 40,2 per cento degli uomini. I salari delle donne sono differenti da quelli degli uomini soprattutto nel settore privato, dove in realtà il gender pay gap sfiora il 18 per cento.

I dati Eurostat perciò sono utili perché ci fanno capire che esistono differenze più o meno marcate tra gli Stati europei e che la condizione delle donne è un problema di tutta l’Europa, e come tale ha bisogno di una legislazione armonizzata e omogenea che punti agli stessi obiettivi e agli stessi risultati.

IL MIO IMPEGNO PER LE DONNE NEL MERCATO DEL LAVORO

La direttiva sulla trasparenza retributiva permette ad esempio di mettere fine alla prassi degli annunci in bianco, quelli in cui non è indicato il trattamento economico e impone alle imprese e ai datori di lavoro finalmente tutta una serie di obblighi e di oneri di trasparenza a garanzia della piena parità di genere negli ambienti di lavoro.

Al Parlamento europeo, abbiamo poi continuato l’impegno ad approvare misure strutturali contro il divario di genere. Come quelle sugli organismi di parità che dovrebbero essere sempre svincolati da qualsiasi articolazione dello Stato che faccia capo al Governo, agendo in modo autonomo e indipendente.

Avere a disposizione più risorse, da destinare alla lotta alla discriminazione di genere e di identità. E infine il diritto di rappresentare in Tribunale una o più donne vittime di discriminazione sul lavoro ma anche di presentarsi dinanzi al giudice per nome e per conto proprio facendo valere i diritti delle donne discriminate.

Non solo. Le donne che denunciano abusi e discriminazioni e decidono di optare per le conciliazioni e le mediazioni potranno essere affiancate e rappresentate dagli organismi di parità, e sentirsi così meno sole. Meno isolate.

Sono anni che gli Stati membri ignorano le raccomandazioni europee sulla parità di genere. Con queste leggi europee oggi dovranno impegnarsi a garantire la parità di genere per ogni provvedimento legislativo, monitorare il fenomeno e creare banche dati e statistiche disaggregate.

MATERNITÀ O LAVORO?

Da anni, poi, seguo la condizione delle donne nel lavoro di assistenza e di cura.

Viviamo in una società che relega ancora tanto le donne in determinati ruoli per uscire dai quali occorrono politiche mirate. Non bastano infatti sgravi una tantum o bonus una tantum. In Italia, ad esempio, l’11 per cento delle donne con figli non è mai riuscita a inserirsi nel mercato del lavoro.

Le donne che, invece, un lavoro ce l’hanno devono destreggiarsi sopperendo in tanti contesti alla carenza di servizi pubblici e di welfare. Ed è anche lì che occorrono politiche mirate e strutturali. È solo dando soluzioni concrete a queste problematiche che si può migliorare l’accesso delle donne al mercato del lavoro e migliorare il settore della cura e dell’assistenza.

Per l’Italia, in particolare, tutto questo significa anche combattere la denatalità che ha raggiunto livelli record e preoccupanti ma anche consentire alle donne di partecipare pienamente allo sviluppo del nostro Paese.

Dunque, solo migliorando la condizione socio-economica delle donne sono convinta che riusciremo a combattere la violenza di genere. Lontana dalle polemiche sterili che purtroppo si sono susseguite in questi ultimi giorni dopo la morte della giovane Giulia Cecchettin, sono convinta che ci sia bisogno di un piano di educazione affettiva nelle scuole e nelle Università, di non estromettere gli uomini dalle doverose riflessioni e movimenti che difendono i diritti delle donne, di rafforzare i centri anti-violenza con risorse adeguate, di spingere per reti sociali sempre più capillari e di norme chiare e certe che tutelino tutte le donne che hanno già subito violenza fisica o psicologica.