Flessibilità e lavoro, cosa ci dicono le “Dimissioni di massa”

flessibilità

La flessibilità lavorativa è un concetto di cui si parla ormai spesso. Come certamente saprete si tratta di approccio che si è sviluppato di pari passo con l’implementazione della tecnologia a disposizione di aziende e lavoratori, e si è sviluppato moltissimo nello scenario pandemico e post pandemico. Con la flessibilità il lavoratore ha maggiori margini di autonomia su come regolare il proprio orario di lavoro, il proprio luogo di lavoro e, in alcuni casi, anche l’ammontare di ore lavorate settimanalmente.

Una tale organizzazione del lavoro ha sicuramente dei vantaggi importanti per la persona che può meglio bilanciare la ripartizione tra la vita quotidiana e la vita lavorativa. Esiste però un rovescio della medaglia che troppo spesso fa il paio con precarietà e instabilità. Condizioni ben note a tanti lavoratori, soprattutto giovani, che si trovano ad aver a che fare con contratti a termini.

DIMISSIONI DI MASSA

In questi giorni ho letto i dati diffusi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali riguardo al fenomeno delle dimissioni di massa di tanti under 40. Nei primi 9 mesi del 2022 si sono registrate oltre 1,6 milioni di dimissioni, un più 22% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state calcolate oltre 1,3 milioni.

Di fronte a questi numeri mi sono subito chiesta cosa potesse spingere ad abbandonare la propria occupazione. E credo che la risposta sia da ricercare in un mix di fattori che varrebbe la pena considerare. La pandemia ha sicuramente dato a tanti più tempo di capire se il lavoro svolto, il datore di lavoro e le prospettive di carriera fossero realmente soddisfacenti. Questo ha probabilmente indotto l’idea che dimettersi e cambiare lavoro potesse essere un modo per migliorare sé stessi.

Ma è inutile negare che l’Italia ha da tempo un enorme problema con l’occupazione, e in particolare con quella giovanile. Con il numero di Neet (i ragazzi under 30 che non studiano, non si formano e non cercano lavoro) più alto d’Europa, uno dei tassi di disoccupazione giovanile più pesanti e un’emorragia di Expat. L’alto tasso di dimissioni tra i giovani è quindi a mio avviso un chiaro campanello d’allarme sulla condizione attuale del mercato del lavoro.

FLESSIBILITA’ E LAVORO, LA STRATEGIA DEL GOVERNO NON CONVINCE

Nelle prossime settimane il governo italiano si appresta ad intervenire per riformare la normativa che regola i contratti a termine. L’idea per ora, presentata dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone, è fissare una durata massima dei contratti a termine, in linea con le raccomandazioni fornite dall’Unione europea, ovverosia 36 mesi lasciando alla contrattazione collettiva e agli accordi tra imprese e sindacati la definizione delle scelte concrete.

Inoltre, per agevolare la flessibilità lavorativa e consentire un più rapido passaggio da un impiego a un altro una volta concluso il rapporto di lavoro, il ministro Calderone intende semplificare al massimo i vincoli previsti per il ricorso dei contratti a termine.

IL NODO DELLE CAUSALI 

In particolare vuole intervenire sulle causali da cui dipendono di fatto le sorti di un rapporto di lavoro a tempo determinato. Stando alla proposta annunciata sembra che il governo intenda ritardare l’entrata in vigore della causale che giustifica il rapporto di lavoro a tempo determinato, limitandone di fatto il campo di azione: sarebbe necessaria infatti non più dopo un anno ma dopo due, con la possibilità di modificare il limite in sede di contrattazione collettiva.

Volendo quindi provare a pronosticare alcuni effetti dell’eventuale riforma, lo spostamento del limite di entrata in vigore della causale comporterebbe un aumento generalizzato della durata dei contratti a tempo determinato. A rimetterci sarebbero ovviamente i lavoratori coinvolti che vedrebbero ridursi le loro tutele, senza facilitare la creazione di nuova occupazione stabile.

Se questa dunque è l’idea di flessibilità che il governo vorrebbe realizzare, non vedo quale possa essere però il valore aggiunto per i nostri lavoratori. Credo invece che sia necessario cominciare ad affrontare i problemi reali ed urgenti del mercato del lavoro: salario, stabilità e valorizzazione delle competenze. Tre punti sui quali l’Italia è rimasta pericolosamente indietro negli anni. Al punto che oggi milioni di persone sono nella morsa della povertà lavorativa, della precarietà, e dopo magari anni di studio e preparazione, non riescono a mettere a frutto le proprie competenze.

PRIMA INTERVENIAMO SUI SALARI AL PALO

L’occupazione italiana oggi sconta tutta una serie di lacune e di squilibri. Non è un caso che l’Italia sia l’ultimo Paese europeo per crescita dei salari nominali. E tra i primi paesi europei su cui ovviamente la crisi inflattiva morde di più sui salari reali. Lo dicono i numeri diffusi dall’Istat: gli stipendi italiani sono scesi in media nel 2022 del 7,6%. Lo scorso anno si è chiuso con un incremento medio del valore nominale delle buste paga dell’1,1% che non compensa l’aumento generalizzato dei prezzi legato all’inflazione che è stata dell’8,7%. In sostanza quindi si guadagna un bel po’ di meno di un anno fa.

Direi, senza mezzi termini, che sono oramai non più sostenibili per il Paese la decrescita e la stagnazione dei salari di milioni di lavoratori e lavoratrici – pensate -3 per cento dal 2007 al 2020 – mentre negli altri grandi paesi europei i salari sono riusciti a crescere, anche a ritmi piuttosto sostenuti, ben al di sopra del 30 per cento!

 

CRESCE L’OCCUPAZIONE, MA NON PER TUTTI

Riguardo all’occupazione persistono inoltre grandi differenze legate soprattutto al genere e all’età. Il tasso di occupazione, secondo l’Istat è in aumento ma per le donne si ferma al 51,3% contro il 69,6% degli uomini. Le donne occupate sono 9.763.000 a fronte di 13.452.000 uomini.

Al divario tra uomini e donne si aggiunge quello generazionale. L’occupazione da novembre 2022 a dicembre cresce per uomini, donne, dipendenti permanenti, autonomi e per tutte le classi d’età tranne che per i giovani tra i 25 e i 34 anni. In questa fascia d’età risultano in calo anche i dipendenti a termine.

Continuare a far finta di nulla non è più possibile. Le difficoltà in cui versano giovani, donne e diverse categorie di lavoratori sono concrete e si stanno aggravando sotto il peso di buste paga al di sotto del salario minimo o totalmente inadeguate alle qualifiche che si possiedono. Con la conseguenza che l’Italia perde centinaia di migliaia di lavoratori preparati e competenti perché preferiscono trasferirsi all’estero dove i salari sono più elevati ed equi.

DIRITTI E TUTELE ALLA BASE DELLA FLESSIBILITA’

Se davvero vogliamo parlare di flessibilità del lavoro, purché non ne danneggi la qualità, allora affrontiamo prima di tutto l’emergenza salariale, combattiamo la povertà lavorativa ed evitiamo interventi legislativi lontani anni luce dalla realtà.

L’abuso della flessibilità in Italia non è iniziato ora e non dipende solo dalle attuali incertezze economiche ma da anni di blande politiche del lavoro che non hanno mai davvero fatto la differenza. Dobbiamo correggere la rotta e archiviare tutti quegli strumenti che permettono di mettere all’angolo i diritti fondamentali dei lavoratori.

A cominciare da stage e tirocini. Nati per accompagnare i giovani nel mercato del lavoro e offrire loro una formazione professionale specifica, ma trasformati in strumenti che rasentano lo sfruttamento e generano solo disuguaglianze sociali ed economiche.

Interveniamo sull’emergenza salariale introducendo il prima possibile il salario minimo anche nel nostro Paese, così come previsto dalla legge europea e rafforziamo la contrattazione collettiva per chiudere definitivamente con il proliferare dei contratti pirata che lasciano milioni di lavoratori scoperti dalle più elementari tutele.

Allo stesso tempo è necessario regolamentare adeguatamente tutte quelle nuove tipologie di lavoro che si sono sviluppate grazie alle nuove tecnologie. Penso ai lavoratori delle piattaforme, ambito in cui il vuoto normativo rischia di lasciare ampio spazio a forme di lavoro prive di diritti e garanzie. Su però il Parlamento europeo ha messo a punto una legge specifica, approvata a maggioranza, durante la mini plenaria del 2 febbraio che si è svolta a Strasburgo, sulla quale ho lavorato affinché milioni di lavoratori e lavoratrici europei non fossero lasciati indietro: basta con i falsi autonomi e opachi algoritmi, come spiego qui. Sì, a norme chiare che possano finalmente tutelarli e fornirgli prestazioni sociali adeguate.

 

Servizio offerto da Daniela Rondinelli, deputata al Parlamento europeo, membro non iscritto. Le opinioni espresse sono di responsabilità esclusiva dell’autore o degli autori e non riflettono necessariamente la posizione ufficiale del Parlamento europeo.