Dal G20 alla COP26, difesa climatica, ruolo dell’Ue e un sano realismo

Dal G20 alla COP26

Lo scorso 30 e 31 ottobre si è chiuso il Summit del G20. L’Italia ha guidato in questi mesi tutte le riunioni ristrette fino all’incontro finale che la maggior parte dei quotidiani nazionali ha definito un “successo”. Durante il vertice sono stati toccati molti temi, sfide globali riassunte poi in un documento di dichiarazione dei leader del G20.

Ho seguito il G20 italiano, e credo che restino aperti alcuni capitoli:

  1. la ripresa equa e sostenibile dell’economia globale
  2. la salute globale con l’accesso alle vaccinazioni in tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo
  3. la tassazione internazionale delle multinazionali, soprattutto le Big Tech
  4. l’energia, bene di consumo ora colpito dalla inflazione, il clima, l’ambiente e l’economia circolare.

Su tutti questi temi i leader del G20 hanno fissato alcuni importanti obiettivi. Ora, si apre la fase delle azioni concrete da intraprendere soprattutto nella lotta al cambiamento climatico e nella costruzione di una ripresa equa e sostenibile dell’economia globale.

Dal G20 alla COP26, occhi puntati sul clima

Il Summit di Roma di fine ottobre ha preceduto i lavori della COP 26, la Conferenza sul Clima che a Glasgow, in Gran Bretagna, ha visto impegnati Capi di Stato e di Governo, delegazioni di tecnici di 196 Paesi, Organizzazioni non governative e migliaia di attivisti.

Già la dichiarazione dei leader del G20 contiene il richiamo alla necessità di “limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi al 2100”.

I grandi della Terra hanno concordato che il Pianeta e l’Umanità non possono reggere l’impatto di un aumento della temperatura media globale, che riguarda il suolo e i mari, di oltre 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali.

Sappiamo anche però che alcuni Stati, considerati negli ultimi 20 anni, “grandi inquinatori” – Brasile, Cina, Russia e India – non sono disposti a rinunciare alla crescita economica. O a determinati profitti che riguardano i combustibili fossili, petrolio, gas e carbone, entro i tempi che invece il Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) ha messo più volte in evidenza.

In sostanza, è importante che la comunità internazionale si impegni ridurre le emissioni di gas serra almeno entro metà secolo.

Quel che ci attende è un vero e proprio collasso non solo degli ecosistemi ma anche delle economie con importantissime differenze tra i paesi industrializzati, quelli emergenti e in via di sviluppo che già oggi subiscono gli effetti peggiori del cambiamento climatico.

Dal G20 alla COP 26, l’Europa e il clima

Battendo tutti sul tempo, l’Unione europea ha gettato le basi per la mitigazione del riscaldamento globale.

Credo che, grazie alle sue politiche ambientali, l’Ue possa guidare la comunità internazionale verso la difesa del clima e dell’ambiente.

Dico questo perché, nelle stesse ore in cui sto scrivendo questo editoriale è iniziata a circolare la bozza del testo dei lavori della COP 26 di Glasgow.

Nel compromesso sono stati al momento stabiliti due target: il taglio del 45% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030 e il raggiungimento della neutralità climatica intorno alla metà del secolo.

L’Unione europea ha già fissato obiettivi molto più ambiziosi: la riduzione del 55% degli inquinanti rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 e il raggiungimento della neutralità carbonica almeno entro il 2050.

A differenza di altri continenti, l’Europa è riuscita a ridurre le emissioni di gas serra del 24% rispetto ai livelli del 1990 già nel 2020. Dopo avere assunto tale impegno nel 2008.

Il fattore tempo è cruciale. Non è un caso infatti che l’IPCC continui a insistere sull’obiettivo di medio termine del 2030.

Non lasciamo indietro nessuno

Gli scienziati internazionali hanno chiesto di aumentare urgentemente i flussi finanziari ai livelli necessari per sostenere i paesi in via di sviluppo.

Anche se finora, il fondo per il clima, da 100 miliardi di dollari l’anno non è mai stato realizzato.

Pur riconoscendo il ruolo finora svolto dal nostro Paese nel guidarne la presidenza e pur condividendo l’unica lettura possibile per la costruzione di una nuova fase internazionale post-Covid che vede al centro un rinnovato multilateralismo e una maggiore cooperazione, credo sia importante mantenere un certo sano realismo sulla lotta al cambiamento climatico.

Abbiamo bisogno di una chiara visione politica per difendere l’ambiente e il clima e garantire allo stesso tempo una crescita socialmente sostenibile alle future generazioni.

L’Unione europea, per esempio, ha dimostrato che possiamo usare tutta una serie di strumenti per disincentivare le produzioni più inquinanti. E difendere i progressi fatti finora.

Dal G20 alla COP26, serve un sano realismo sulla lotta al cambiamento climatico

Cina, India, Russia e Brasile hanno dichiarato che non intendono piegarsi alle richieste più ambiziose promosse in particolare dall’Unione europea sulla mitigazione degli effetti del riscaldamento globale, la transizione ecologica ed energetica. Settore quello dell’energia che al momento contribuisce a circa la metà delle emissioni di gas serra a livello globale.

Mentre il G20 si riuniva a Roma, UE e Stati Uniti, col presidente Joe Biden rientrati nell’Accordo di Parigi, hanno optato per una intesa bilaterale, al fine di rimuovere i dazi sui prodotti per antonomasia inquinanti ed energivori, come alluminio e acciaio.

Tale intesa è molto significativa per almeno due ragioni:

  1. è un argine alla produzione più inquinante di alluminio e di acciaio, in particolare l’acciaio proveniente dalla Cina che oggi è il primo produttore mondiale (si tratta di un acciaio di minor qualità e più impattante a livello ambientale);
  2. ripristina un canale privilegiato tra due continenti, USA e Ue, con la consapevolezza che l’Europa ha compiuto i maggiori passi in avanti per ridurre l’impatto ambientale del settore siderurgico ora attraverso l’imposizione di norme più stringenti ora finanziando ricerca e sviluppo e progetti innovativi.

A livello nazionale l’intesa tra USA e Ue rafforza il made in Italy e, più in generale le produzioni di qualità più green. 

L’esempio di una buona politica ambientale: il regolamento CBAM

L’Unione europea sta lavorando sulla messa a punto del Pacchetto Fit for 55 che contiene 12 iniziative legislative di riforma di una serie di direttive.

In questo quadro, l’Ue ha approvato il Regolamento sul meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera. Un testo normativo elaborato per ridurre le importazioni di quei prodotti più inquinanti provenienti dai paesi terzi, al fine di proteggere il processo di transizione ecologica inaugurato con il Green Deal e gli impegni assunti già nel 2015 dall’Unione con l’adesione all’Accordo di Parigi.

Il regolamento CBAM impone sui prodotti più inquinanti una imposta. Chi nell’Unione europea vorrebbe importare l’acciaio o l’alluminio dalla Cina, per fare un esempio, dovrà pagare un sovraprezzo.

In questo modo le aziende che producono l’acciaio all’interno del mercato unico europeo sono tutelate. Soprattutto, dalla concorrenza dei Paesi asiatici che hanno regolamentazioni ambientali meno stringenti.

L’obiettivo è incentivare le imprese europee a ridurre il più possibile l’impatto ambientale, producendo allo stesso tempo beni di qualità altamente competitivi.

Il caso dell’AST di Terni

Politiche come quelle del regolamento CBAM consentono di proteggere prodotti di qualità, come gli acciai inox e speciali dell’AST di Terni, che può così concentrarsi sulla riduzione delle emissioni di gas serra con investimenti appropriati.

Il regolamento CBAM entrerà in vigore gradualmente dal 2023. L’Ue punta a ottenere risorse pubbliche che finanzieranno il Next Generation Eu che farà da acceleratore per la transizione ecologica.

Transizione ecologica che ritengo però debba essere equa e compiutamente equilibrata. Mi sono impegnata subito perché il regolamento CBAM venisse applicato a tutti i prodotti siderurgici nazionali. 

Cosa rappresenta dunque la vicenda di AST? Una sola cosa: che la sfida verso la transizione ecologica necessita di un grande lavoro e di uno sforzo condiviso.

E che la difesa del made in Italy anche nella prospettiva dell’attuazione del pacchetto “Fit for 55” deve essere prioritaria.

L’ho ricordato anche a tutte le parti in causa, da Federmanager ai sindacati, durante la mia visita a Terni organizzata per ascoltare le istanze e le preoccupazioni sulla recente acquisizione delle Acciaierie Speciali da parte del Gruppo Arvedi.

Perché i partenariati pubblico privati

È chiaro però che le sole risorse pubbliche non bastano per arrivare alla neutralità carbonica. Energia, trasporti, urbanistica: sono tanti i settori chiamati all’appello dinanzi alla sfida della transizione ecologica.

I partenariati pubblico-privati possono giocare un ruolo molto importante.

Mentre infatti il pubblico fornisce un quadro normativo, gli incentivi, i sussidi, i finanziamenti, il privato può mettere a disposizione le conoscenze, le tecnologie e il capitale umano competente per portare avanti la transizione ecologica e la lotta ai cambiamenti climatici.

Il partenariato pubblico-privato credo sia indispensabile per il clima. Nessuno Stato a livello politico può farcela da solo, visto che parliamo di una sfida che riguarda tutti.

Così le istituzioni – governi ed enti – non possono farcela senza il prezioso apporto dei privati. Ma è vero anche il contrario, perché imprenditori, agricoltori e consumatori devono potere contare sul pubblico per affrontare questa sfida.

L’Ue e i partenariati per il clima

A livello europeo è nato così un partenariato fra Commissione e Banca Europea per gli investimenti e Breakthrough Energy Catalyst per mobilitare tra il 2022 e il 2026 fino a 820 milioni di euro per diffondere e commercializzare nel più breve tempo possibile le tecnologie innovative che aiutino a realizzare gli obiettivi ambiziosi del Green Deal entro il 2030.

L’Ue prevede di investire su idrogeno verde, carburanti sostenibili per l’aviazione, lo stoccaggio di energia pulita di lunga durata.

Non possiamo immaginare di arrivare a salvaguardare il pianeta senza coinvolgere multinazionali e imprese. Imprescindibile però che i partenariati pubblico-privato si pongano sempre obiettivi concreti e monitorabili.

L’Europa ha un quadro normativo tra i più stringenti e ambiziosi sul clima. Sappiamo però che con i suoi circa 300 milioni di abitanti, il 6% della popolazione mondiale, e il 22% del Prodotto interno lordo globale, è responsabile dell’8% delle emissioni di gas serra del Pianeta.

Dimostriamoci capaci di tessere, nei tempi necessari a salvare il Pianeta, le economie e il futuro delle nuove generazioni, quella coesione che considero da un lato ancora troppo debole a livello internazionale e dall’altro non sufficientemente consolidata all’interno dell’Ue.

 

Servizio offerto da Daniela Rondinelli, deputata al Parlamento europeo, membro non iscritto.
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