Patto di Stabilità e Mes, governo in direzione ostinata e contraria

Patto di Stabilità

Nei mesi scorsi i cittadini e le cittadine avranno sicuramente letto o sentito parlare del Patto di Stabilità e Crescita e del Meccanismo Europeo di Stabilità. Di che cosa si tratta?

Il Patto di Stabilità e Crescita, introdotto alla fine degli anni Novanta, in un contesto politico sociale ed economico differente da quello attuale, è l’insieme delle regole dalle quali dipendono i bilanci e i conti pubblici degli Stati europei compresi di quelli che non hanno adottato l’Euro.

Nell’ottica di mantenere le spese e le entrate dei paesi membri sostanzialmente in ordine e tenere sotto controllo i debiti pubblici, soprattutto, a seguito della crisi economico-finanziaria che colpì l’Unione europea nel 2008 ed espose alcuni Stati dell’eurozona alla speculazione dei mercati e al rischio default, le regole del vecchio Patto di Stabilità e Crescita hanno imposto per oltre un decennio all’Unione europea la ben nota austerità economica.

I paesi membri quindi dovevano limitare il deficit pubblico al tre per cento del Prodotto Interno Lordo, e il debito al 60 per cento.

LA PANDEMIA DI COVID-19: ULTIMO GIRO DI BOA

Storicamente, il nostro Paese è tra quelli dell’Eurozona e dell’UE con il debito pubblico più elevato. In assenza di flessibilità, l’austerità si è tradotta in rigorismo di bilancio che è costato tagli lineari alla spesa pubblica a danno dei servizi essenziali e del welfare in Italia e nel resto d’Europa. In particolare, nel nostro Paese le condizioni in cui, oggi, versano entrambi la dicono lunga sulla qualità dei limiti imposti dal Patto di Stabilità e Crescita.

Con la pandemia di Covid-19 la nuova crisi non ha colpito duramente una cerchia ristretta di paesi europei bensì in modo simmetrico tutti gli Stati membri.

La risposta è stata storica: da un lato, la nascita del fondo Next Generation Eu, dall’altro, la sospensione delle regole e dei limiti imposti dal Patto di Stabilità e Crescita, la fine di una politica macroeconomica e di finanza pubblica rigida e austera (agevolata dal Whatever it takes dell’allora presidente della Banca Centrale Europea Draghi) e il via a uno sforzo comune per affrontare gli effetti della pandemia di Covid-19 e la promessa – rispettata – di riformare il Patto.

Quando la Commissione europea, grazie anche all’instancabile lavoro del Commissario all’Economia Paolo Gentiloni, ha presentato la sua proposta di revisione del Patto di Stabilità e Crescita con l’avvicinarsi della scadenza della sospensione della clausola di salvaguardia, ho scritto un lungo articolo sulle buone premesse sulle quali reggeva la proposta.

PATTO DI STABILITA’, LA RIFORMA E IL COMPROMESSO

La proposta di riforma del Patto di Stabilità e Crescita della Commissione europea è partita dalla premessa che la crescita dei paesi membri restasse sostenibile mantenendo perciò l’impegno di tenere sotto controllo i debiti pubblici ma garantendo rispetto alle vecchie regole una maggiore flessibilità per farlo ai governi nazionali. La proposta della Commissione europea parte da tre pilastri:

  • Divisione dei paesi membri in gruppi, in base al livello di debito pubblico. Basso (un rapporto debito/Pil inferiore al 60%), moderato (grosso modo tra il 60 e il 90%) e alto (oltre il 90%).
  • Riforme e degli investimenti. Nel percorso di aggiustamento del livello del debito pubblico, indicato dalla Commissione, gli Stati europei dovranno discutere con la stessa Commissione un piano almeno quadriennale che includa una serie di riforme e investimenti da fare, in particolare per accelerare la transizione verde e digitale.
  • Sanzioni. Restano le procedure per deficit eccessivo o debito eccessivo. La novità è rappresentata dall’opzione di sospendere l’erogazione dei fondi europei se un Paese si allontana eccessivamente dalle soglie massime del 3% del rapporto deficit/Pil e del 60% debito/Pil.

SALVI ALCUNI ELEMENTI POSITIVI DELLA RIFORMA

La riforma, che arriva dopo mesi e mesi di discussioni, e sulla quale prima della fine del 31 dicembre 2023 è stato raggiunto l’accordo politico, è la migliore possibile, condivido la posizione del Commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni raccontata poi pubblicamente in una intervista al Corriere della Sera.

Riconosco che puntavamo, io per prima al Parlamento europeo, a un risultato molto ambizioso: lo scorporo degli investimenti verdi e sociali dal calcolo del deficit/Pil ma credo che l’avere raggiunto un compromesso prima della fine della clausola di salvaguardia sia stato un risultato importante e che nessuno di noi dava per scontato.

FLESSIBILITA’ E PNRR

La flessibilità proposta dalla Commissione europea è salva: l’Italia ha a disposizione sette anni per rientrare dal deficit eccessivo avendo in mano risorse economiche di cui negli anni passati non disponeva, quelle del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in parte a fondo perduto. Tutto dipenderà da come il governo Meloni spenderà i soldi del PNRR entro il 2027 e gestirà le prossime manovre economiche.

Il PNRR sarà scomputato dal calcolo del rapporto deficit/Pil, e quindi, il nostro Paese dovrebbe dare fondo alle risorse europee anche per la parte dei prestiti. Si terrà conto anche del peso degli interessi sul debito, oggi più elevati dopo la stretta della Banca Centrale Europea per contenere la inflazione innescata dagli shock esterni.

Si tratta perciò logicamente di un compromesso. Ma chi pensa che sarebbe stato meglio, alle condizioni attuali, tornare al vecchio Patto si sbaglia di grosso. Intanto, l’Unione europea ha posto un primo mattone di rinnovamento, convinta che la strada da percorrere per migliorare le fondamenta su cui si basa il modello economico, finanziario, fiscale e monetario dell’Europa è lunga, ed è cruciale continuare a partire dalla prossima legislatura per garantire una maggiore integrazione dell’Unione.

Eppure, il governo Meloni che vanta di avere portato a casa la riforma del Patto – sicuramente ha messo una firma – in realtà non ha contribuito poi molto alla discussione e non ha fatto proprio una bella figura. Il sì del ministro delle Finanze Giancarlo Giorgetti è arrivato dopo quello di tutti gli altri Stati europei. Altrettanto si può dire sul no alla ratifica del Mes, su cui il governo Meloni ha isolato l’Italia in Europa. Si è spaccata – il ministro Giorgetti lo avrebbe ratificato – e infine non risulta che nel frattempo sia riuscita a proporre una riforma alternativa.

IL VOTO SUL MES

Il fatto che in Parlamento ci siano due forze di governo che votano contro il Mes, Fratelli d’Italia e Lega, e Forza Italia che si astiene mettendo però le mani avanti, dimostra che c’è un problema grosso all’interno della maggioranza.

Un problema, che ricordo, si ripete in modo evidente anche in Europa, dove Fratelli d’Italia e Lega che sono nei due gruppi più estremisti a destra, votano sempre contro ogni cosa che si decide e discute, a differenza di Forza Italia che fa parte del partito Popolare Europeo. Una dicotomia che evidenzia come queste forze non siano poi così coese come vogliono fare credere.

Il fatto che la bocciatura del Mes sia arrivata il giorno dopo l’approvazione all’unanimità, quindi anche dell’attuale governo italiano, della riforma del Patto di Stabilità e Crescita, mostra che questo Esecutivo abbia mentito.

In Italia ha mentito sul fatto che fosse uno strumento negoziale. In Europa, dicendo che arrivando a un accordo sul Patto accettabile per l’Italia, avrebbe poi ratificato il Mes. E ciò accade mentre è ancora aperta – a causa del veto ungherese – la partita della riforma del bilancio pluriennale europeo, cui sono collegati i fondi per l’Ucraina, ma anche quelli per la politica migratoria chiesti sempre dall’Italia.