Salario minimo europeo, il “sì” del Parlamento è una vittoria dei lavoratori

Salario minimo

L’11 novembre 2021 è stato un giorno “storico”. La direttiva sul salario minimo europeo ha ricevuto il primo importante “sì” da parte della Commissione Occupazione e Affari Sociali del Parlamento europeo.

Sono convinta che si tratti di un grandissimo passo avanti sia per l’Italia sia per l’Europa. La direttiva, infatti, rappresenta uno straordinario strumento di lotta alla povertà lavorativa, al dumping salariale e alla concorrenza sleale.

Ma questa votazione è per me motivo di doppia soddisfazione. Intanto, perché il salario minimo rappresenta una battaglia di lungo corso del Movimento 5 Stelle che ha puntato e continua a puntare moltissimo su questa misura sociale.

Infine, perché il mio lungo lavoro, durato quasi un anno, ha dato i frutti attesi: tutti gli emendamenti che ho presentato sono stati approvati e inseriti nel testo della risoluzione attesa in Plenaria tra il 22 e il 25 novembre prossimi.

Salario minimo, strumento importante per i lavoratori nella ripresa post-Covid

Una grande vittoria per tutti i lavoratori che negli ultimi anni hanno visto diminuire salari e redditi.

Secondo i più recenti dati messi a disposizione dall’OCSE, infatti, l’Italia è l’unico paese UE dove i salari sono diminuiti del 2,90%.

Una situazione che ha pesato soprattutto su donne e giovani e che si è aggravata ulteriormente con la crisi economica innescata dalla pandemia di Covid-19.

Nel dicembre del 2020, l’Istituto nazionale di statistica (Istat) ha rilevato che in un solo mese sono andati in fumo 101 mila posti di lavoro, essenzialmente donne (- 99mila unità), giovani e under 50. Il tasso di disoccupazione giovanile è tornato a sfiorare il 30%. Oggi infatti siamo fermi al 29,7%, i peggiori nell’area Euro.

Dobbiamo intervenire al più presto.

Il mio contributo al miglioramento del testo

Sin dalla presentazione della proposta da parte della Commissione europea, nell’ottobre 2020, ho seguito con attenzione i lavori sulla direttiva sul salario minimo, contribuendo a migliorarne il testo.

Un percorso costellato da molti ostacoli e resistenze, soprattutto, da parte dei paesi “frugali” e da quelli scandinavi che avrebbero preferito di gran lunga annacquare, e così indebolire, il testo della direttiva con l’inserimento di una “opzione” per uno Stato membro di non recepire tutta o parte della direttiva. Il cosiddetto “opting out“.

Grazie anche  ai miei emendamenti, il testo uscito in Commissione Occupazione e Affari Sociali contiene tre criteri chiave per determinare l’adeguatezza e l’equità dei salari:

  1. il salario minimo dovrà essere al di sopra del 50% del salario medio e del 60% del salario mediano lordo nazionale;
  2. dovrà essere al di sopra di una ‘soglia di dignità’ calcolata in base al potere d’acquisto dei salari. Tenendo conto di un paniere di beni e servizi a prezzi reali, comprensivi di IVA e imposte;
  3. ogni Stato Membro dovrà garantire che almeno l’80% dei lavoratori sia coperto dalla contrattazione collettiva. Nessun paese Ue potrà chiamarsi fuori dalla applicazione di questa norma, con l’obbligo di presentare un piano biennale che verrà monitorato anche dal Parlamento Europeo.

Credo che questi siano criteri essenziali per la costruzione di un salario minimo europeo adeguato. Criteri che sono stati infatti  ampiamente condivisi e approvati dalla stragrande maggioranza dei membri della Commissione Occupazione e Affari Sociali.

Mentre il MoVimento Cinque Stelle, assieme alle forze progressiste, riformiste ed europeiste, ha lavorato sulla direttiva, diversi esponenti della destra italiana hanno preferito astenersi o non si sono presentati in Aula.

Dopo oltre un anno e mezzo, infatti, il Parlamento europeo ha deciso di tornare alle votazioni in presenza.

Un simile atteggiamento significa non comprendere davvero l’importanza di uno strumento come il salario minimo europeo, soprattutto ora importante per il nostro Paese.

Perché la direttiva serve all’Italia

La pandemia ha aggravato una dinamica che tra il 2019 e il 2020 ha visto una contrazione record del salario medio, sfiorando il 6%. È alla crescente domanda di equità e giustizia sociale e salariale che dobbiamo rispondere in modo netto ed efficace, ma soprattutto, in modo tempestivo.

Il rischio è che nella ripartenza post-pandemia permangano ancora lavoratori che percepiscono salari sempre più insostenibili a garantire una vita dignitosa.

Nel nostro Paese ci sono ad oggi 3,5 milioni di lavoratori privati – circa 600mila lavoratori domestici e 370mila operai agricoli con i salari più bassi in assoluto – che percepiscono di gran lunga meno di nove euro l’ora, paletto peraltro fissato nel ddl Catalfo sul salario minimo legale.

Donne, uomini, ma soprattutto giovani e stranieri che percepiscono anche due o tre euro l’ora, talvolta come stagionali, riders, stagisti.

Secondo dati Eurostat – peraltro precedenti la pandemia – c’era già una fetta pari al 12,2% dei lavoratori a rischio povertà. Una fetta in continua crescita, complici il diffusissimo part time involontario (che riguarda soprattutto le donne) e i “contratti pirata”, siglati da gruppi rappresentativi minori o “di comodo” che spingono i trattamenti economici verso il basso rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro.

Per questo abbiamo chiesto e ottenuto che la direttiva si applichi a tutti i lavoratori, inclusi precari, atipici e per gli stage e che consenta di rafforzare il ruolo della contrattazione nazionale collettiva che potrà così smantellare l’attuale “giungla”.

E perché ne ha bisogno anche tutta l’Europa

In questi anni abbiamo visto come nei paesi dell’Est, il mercato del lavoro abbia attirato tante imprese interessate ad abbattere il costo del lavoro con salari bassissimi anche perché, proprio in quei paesi, la contrattazione collettiva è ancora molto debole.

Una situazione che si ripercuote anche sul mercato del lavoro del nostro Paese.

Generalmente accade che un lavoratore, spesso dipendente una multinazionale o di una grande impresa, riceva una lettera dal suo datore di lavoro con cui si procede al licenziamento, delocalizzando poi in tutto o in parte la produzione di uno Stato dell’Est o in un Paese terzo.

Secondo Eurostat, nel periodo compreso tra il 2001 e il 2006, il 16% delle aziende europee ha delocalizzato in Paesi terzi. In Italia, tra il 2009 e il 2015, 35.000 aziende hanno spostato la loro produzione in un altro Stato.

La direttiva sul salario minimo europeo mette un argine al fenomeno sempre più diffuso delle delocalizzazioni predatorie e della concorrenza sleale alimentate dal dumping salariale e sociale.

Armonizzando così il salario minimo in tutti i Paesi europei, l’Ue punta a colmare profonde differenze oggi esistenti nell’economie reali degli Stati membri. Questo è vero soprattutto tra Ovest ed Est dell’Unione.

In questo senso è la prima volta, dopo anni di dibattito, che una direttiva parla di delocalizzazioni predatorie e di concorrenza sleale. Una svolta normativa e politica con cui l’Ue prende atto degli squilibri in atto all’interno del mercato unico e degli effetti negativi a livello sociale e occupazionale.

Il salario minimo europeo è una speranza per tutti i lavoratori.  Resta solo un ultimo passo: l’approvazione definitiva in Plenaria fissata tra il 22 e il 25 novembre.

L’ultimo atto dei frugali e degli scandinavi contro la direttiva

A pochissime ore dall’approvazione della direttiva in Commissione Occupazione e Affari Sociali ho saputo che il presidente del PE, David Sassoli, ha chiesto, come previsto dai regolamenti, di “blindare” il testo.

Un’azione che serve a impedire nuovi emendamenti in Plenaria  prima del voto definitivo.

Ora non ci resta che aspettare l’esito di questa richiesta. Contro cui poco meno di un centinaio di eurodeputati ha la facoltà di raccogliere le firme, per permettere invece modifiche last minute in Plenaria. L’ultimo atto dei Paesi frugali e degli Scandinavi contro il salario minimo europeo.

 

 

Servizio offerto da Daniela Rondinelli, deputata al Parlamento europeo, membro non iscritto.
Le opinioni espresse sono di responsabilità esclusiva dell’autore o degli autori e non riflettono necessariamente la posizione ufficiale del Parlamento europeo.