Donne, le bugie di Meloni su madri, natalità e occupazione

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8 marzo. Nel giorno dedicato alle donne, la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha dichiarato:

“La festa della donna non è solo un giorno di celebrazione, ma un’occasione per riflettere sulle conquiste raggiunte e sugli obiettivi ancora da perseguire. Grazie al supporto di politiche concrete messe in atto dal nostro governo, abbiamo promosso l’occupazione femminile, i cui risultati, certificati dall’Istat, ci rendono particolarmente fieri”.

DAL GOVERNO SOLO PROPAGANDA

Ascoltando queste parole, ho subito pensato che ancora una volta la propaganda di questo governo dimostra di non conoscere limiti né – aggiungo – vergogna. Per questo chiedo a tutte le donne, le giovani, madri e lavoratrici di non credere alle bugie della Premier Meloni che sostiene di avere a cuore la questione femminile.

Abbiamo deciso di smantellare una ad una le bugie del governo Meloni sulla natalità e l’occupazione femminile, anche perché, per quanto ci sforziamo, come forza di opposizione in Italia e in Europa non riusciamo a intravedere una sola politica concreta che aiuti le donne italiane a concludere quel percorso di emancipazione che nonostante anni di lotte e di proteste del passato non si è ancora del tutto realizzato.

OCCUPAZIONE FEMMINILE, COSA DICONO I DATI

I dati Istat, commentati dalla Presidente del Consiglio Meloni, sono quelli mensili e relativi al solo mese di marzo 2024.
In generale, anche se il tasso di occupazione sta migliorando, negli ultimi tre anni l’Italia è rimasta tra le ultime posizioni in tutta l’Unione europea.

Il tasso di occupazione femminile in Italia, secondo gli ultimi dati Eurostat, è il più basso tra gli Stati europei, attestandosi 14 punti sotto la media. Come rivela peraltro il dossier pubblicato dal Servizio studi della Camera dei deputati, nel quarto trimestre del 2022, il divario tra popolazione maschile e femminile è piuttosto ampio sia dal punto di vista occupazionale – sono 9,5 milioni le donne occupate mentre gli uomini sono 13 milioni – sia retributivo.

Il dato che ci parla di un generale aumento del tasso di occupazione va quindi contestualizzato. Quel numero, da solo, non dice nulla sulla qualità del lavoro femminile in Italia. Non spiega, ad esempio, che tra le donne occupate risultano anche quelle che hanno contratti precari, sottopagati e a termine. Né ci dice quante, in quella stessa platea, sono costrette a un part-time per poter conciliare il lavoro e la famiglia.

E non dice nulla, infine, sull’instabilità perenne con cui molte donne hanno a che fare nel mondo del lavoro, a causa di una cultura sessista che continua a discriminarle dando per scontato che in un certo momento della loro vita abbandoneranno la carriera per doversi prendere cura dei figli. O in altri casi di una persona anziana o con disabilità.

L’impressione è che pur di alimentare la propaganda, il governo Meloni – come in altre occasioni – ignori i dati reali. Guardiamo, allora, alla fascia di età compresa tra i 25 e i 54 anni: se c’è un figlio minore il tasso di occupazione per le donne (madri) si ferma al 63%, contro il 90,4% di quello degli uomini (padri). Con due figli minori, poi, l’occupazione femminile scende addirittura al 56,1%, mentre crescono i padri che lavorano (90,8%), con un divario che arriva a ben 34 punti percentuali (!).

SOSTEGNO ALLA NATALITÀ, LE DEBOLI PROPOSTE DI MELONI

Nei roboanti annunci fatti in occasione della presentazione della bozza della legge di Bilancio per il 2024 lo scorso ottobre, un punto cardine su cui si è concentrata la Premier aveva a che fare con la maternità. Perché citiamo Meloni:

“Una donna che ha messo al mondo almeno due figli ha già dato un contributo importante alla società”.

Analizzando quanto previsto dall’ultima legge di Bilancio, notiamo che, a dispetto del nome generalizzato, il cosiddetto “Bonus mamme”, la misura non è affatto destinata a tutte le mamme. L’esenzione dei contributi previdenziali spetta infatti solo a determinate categorie di donne, ovvero madri lavoratrici dipendenti, con un contratto a tempo indeterminato, con tre o più figli (con al massimo 18 anni di età).

Insomma una quota molto ridotta – si stimano poche centinaia di migliaia di madri -, nonostante i dati occupazionali sopracitati e soprattutto che il nostro Paese sta vivendo uno degli inverni demografici peggiori, con un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa.

Oltre la beffa, anche il danno. Secondo i sindacati infatti il Bonus mamme rischia di non fare aumentare la retribuzione netta in busta delle donne che ne avrebbero più bisogno, con un reddito medio-basso, ma di far crescere quello imponibile o tassabile (Irpef) e l’Isee, quale indicatore indispensabile per chiedere e ottenere non solo l’assegno unico ma anche altre agevolazioni statali.

ASILI E PRODOTTI PER L’INFANZIA, I PARADOSSI PIÙ EVIDENTI

Il governo Meloni si è poi vantato di aver aumentato il “bonus asilo nido” per le famiglie con un reddito Isee fino a 40 mila euro, che hanno almeno un figlio con meno di 10 anni di età e che ne hanno un altro dal 1° gennaio 2024.

Per sfatare l’idea che bastino dei bonus per rilanciare la natalità e l’occupazione femminile, ricordiamo al governo Meloni che i posti negli asili nido sono pochi. Un problema atavico del nostro Paese per il quale avevamo risorse dedicate del Pnrr.

Come pensate che sia andata a finire?

IL CORTO CIRCUITO

Il governo Meloni è stato tanto ‘solerte’ da tagliare i fondi europei del Piano destinati alla creazione dei servizi di educazione e cura a favore della prima infanzia. Tagli previsti dalla revisione proposta dalla maggioranza e approvata dalla Commissione europea il 24 novembre scorso, che consistono nella riduzione da 264.480 a 150.480 dei nuovi posti da creare.

Per rafforzare tali servizi, originariamente il Pnrr non puntava solo alla quantità, ma anche, alla qualità. I Comuni potevano presentare i progetti per la riqualificazione e/o ristrutturazione di strutture dedicate già esistenti.

Convinto che il target fosse irrealizzabile, il governo Meloni ha deciso di dimezzarlo. Promettendo, comunque, d’investire nuove risorse (avvalendosi dei fondi di coesione?) per aumentare il numero dei posti negli asili nido, indicando i seguenti obiettivi:

  1. Copertura dei servizi di educazione e cura al 33% dei bambini di età inferiore ai tre anni entro il 2026;
  2. Copertura dei servizi di educazione e cura al 45% entro il 2030.

Per funzionare, la nuova strategia del governo Meloni dovrà superare il divario tra Nord e Sud. Come? Al momento, non è chiaro né quali saranno le risorse che la maggioranza è in grado di reperire dai Fondi di coesione e da quelli regionali, entrambi erogati dall’Unione europea né come colmare il divario territoriale, soprattutto, se nel frattempo hanno in cantiere la pessima riforma dell’Autonomia Differenziata.

BONUS SENZA ASILI NIDO

Dunque: se non ci sono posti sufficienti negli asili nido – quelli privati costano sempre di più – le famiglie dovranno adottare soluzioni alternative, come baby sitter o nonni. Le prime costano, è difficile che le fasce meno abbienti della popolazione o i nuclei familiari monoparentali costituiti generalmente da una donna sola con uno o più bambini riescano ad assumerne una. I secondi non sempre ci sono, perché magari distanti dalla città in cui i figli si sono trasferiti per lavoro.

Paradosso dei paradossi, la stessa legge di Bilancio per il 2024, ha aumentato dal 5 al 10% l’aliquota Iva per alcuni prodotti per la prima infanzia, come il latte in polvere e i pannolini per bambini. L’Iva per i seggiolini per bambini da installare sugli autoveicoli è stata aumentata al 22 per cento. Lo stesso governo Meloni aveva ridotto l’Iva su questi prodotti con la legge di Bilancio per il 2023, ma poi ha eliminato il taglio perché “non avrebbe generato i risparmi sperati per le famiglie”.

Insomma, tutto e il contrario di tutto. Risorse “aggiunte” da una parte e tolte dall’altra per illudere i cittadini e le cittadine che si sta facendo qualcosa, quando sappiamo bene che in realtà la natalità non si rilancia con bonus una tantum né tantomeno è possibile sostenere l’occupazione femminile se non si permette alle donne di conciliare la vita privata con quella professionale.

L’EUROPA PER LE DONNE

In questi anni, invece, in Europa sulla questione femminile abbiamo fatto molti passi in avanti. La parità tra donne e uomini rappresenta un valore fondamentale dell’Unione europea, risalente al trattato di Roma del 1957 che ha stabilito il principio della parità di retribuzione per uno stesso lavoro.

A questo proposito, con la Direttiva sulla trasparenza salariale abbiamo dato concretezza alle parole “Uguale salario per uguale lavoro” e possiamo finalmente contare su nuove regole che garantiscono davvero carriere più trasparenti e salari più giusti per tutte le donne. Indovinate? Al Parlamento europeo, le destre hanno votato contro la normativa europea.

Attualmente, le norme Ue sulla trasparenza salariale sono in vigore. L’Italia ha l’obbligo di recepirle, dando così un segnale politico forte e concreto a milioni di donne. Il governo Meloni inoltre avrebbe la possibilità di dimostrare di avere realmente a cuore l’emancipazione femminile, che per realizzarsi, necessita prima di tutto di indipendenza economica, anche per combattere la violenza dei partner o dei mariti.

L’IMPORTANZA DI CONCILIARE LAVORO E FAMIGLIA

Ma la vita non è fatta solo di lavoro e denaro. Trovare un equilibrio tra l’attività professionale, la garanzia del proprio reddito e il tempo da dedicare a sé stessi e alla propria famiglia rappresenta un aspetto importante sia per le donne che per gli uomini. Per questo motivo, siamo intervenuti per rafforzare strumenti come il congedo di paternità, il congedo parentale, il congedo per i prestatori di assistenza, le modalità di lavoro flessibili per i genitori e i prestatori di assistenza.

Il lavoro di cura è da sempre a carico prevalentemente delle donne che, spesso, per seguire i figli piccoli o i soggetti più fragili del nucleo familiare, sono costrette a sacrificare il lavoro e la carriera. Abbiamo lavorato per la definizione di una Strategia europea per l’assistenza e la cura.

Da anni, seguo la condizione delle donne occupate nel settore dei servizi e impiegate nel lavoro domestico. Mi sono impegnata personalmente affinché la proposta della Commissione europea fosse migliorata, proponendo che anche il lavoro domestico venisse considerato al pari di quello svolto dai professionisti dell’ambito socio-sanitario.

PIÙ TUTELE PER LE DONNE CHE SUBISCONO DISCRIMINAZIONI DI GENERE

La ferma volontà di contribuire a costruire quelle politiche mirate, e non spot, necessarie alla parità di genere mi ha portato anche a impegnarmi in Commissione Lavoro per migliorare il ruolo svolto dagli organismi di parità. Grazie alle indicazioni che abbiamo tracciato, ora gli Stati membri non potranno più ignorare le raccomandazioni europee sulla parità di genere. Con questa legge Ue infatti dovranno impegnarsi a garantire la parità uomo-donna (e non solo avendo riguardo più in generale al genere) in ogni provvedimento, con l’obbligo di monitorare il fenomeno e creare banche dati e statistiche apposite.

Grazie all’Unione europea, dunque, il governo italiano, che sulla questione di genere come abbiamo visto continua ad arrancare proponendo soluzioni del tutto inefficaci, potrebbe impostare delle politiche strutturali e lungimiranti sostenendo l’indipendenza economica delle donne, l’occupazione femminile e la natalità. A pochi mesi dalle elezioni europee, ricordiamo che, se oggi c’è una normativa europea sulle donne è principalmente merito dei progressisti. I conservatori europei, compresi FdI, dicono sempre solo “no” e non propongono mai neppure una soluzione.

L’ennesimo controsenso di questo governo e delle destre che dimostrano di essere inaffidabili e incapaci a rilanciare temi sociali e occupazionali fondamentali, non solo, per realizzare pienamente la giustizia sociale e il principio di uguaglianza, ma anche, per consentire alle donne di partecipare pienamente allo sviluppo dell’Italia e dell’Europa.