Poco più di un anno fa, il Parlamento europeo dava il via libera definitivo alla direttiva sul salario minimo. Fu una vittoria politica di portata storica, dal momento che mai prima di allora l’Unione europea aveva adottato un provvedimento simile per arginare il lavoro povero, il dumping e la concorrenza sleale nel mercato unico europeo.
Con questa direttiva, l’obiettivo primario era ed è ancora riuscire a rilanciare l’economia dopo due grandi crisi: quella economico-finanziaria del 2008 e quella pandemica che a differenza della prima ha colpito in modo simmetrico e pesante tutti i paesi europei.
SALARIO MINIMO, UN’OCCASIONE IMPORTANTE
È trascorso quasi un anno dalla entrata in vigore della legge europea salari minimi adeguati. L’Italia ha due anni di tempo per adeguarsi, se non vuole incorrere in una procedura d’infrazione. Nel frattempo, un governo si è dimesso per lasciare il posto a un nuovo Esecutivo democraticamente eletto. Come ho raccontato più volte in questa newsletter, la direttiva europea salari minimi adeguati è un’opportunità imperdibile per il nostro Paese, il peggiore in Europa per crescita dei salari.
È notizia di ieri, infatti, (24 agosto 2023 ndr), che i dati sulla povertà assoluta in Italia sono in peggioramento. È normale se almeno un lavoratore su cinque percepisce un salario molto basso o è costretto al part-time involontario. Ripeterlo non è mai abbastanza: in 30 anni l’Italia è l’unico Paese europeo dove i salari sono scesi.
A rilevarlo l’Ocse. Tra il 1990 e il 2020 l’andamento dei salari reali ha segnato un – 2,9 per cento. Nel 2022, il tonfo con un -7,5 per cento a causa della inflazione che riguarda i beni di largo consumo. Il dato è il peggiore di sempre. Il peggiore in assoluto se confrontato a quello degli altri grandi paesi europei, dove il costo della vita è comunque elevato, e alla media europea (- 2,2 per cento).
DAL 2008 RIPRESA DISOMOGENEA
La Caritas e Confcommercio denunciano due facce della stessa medaglia. Da un lato, infatti, dal 2005 a oggi, il numero dei poveri è passato dai due milioni e 55mila a 5,6 milioni attuali. La pandemia quindi ha contribuito ad allungare le fila di chi non arriva alla fine del mese o non riesce a garantire a sé o alla propria famiglia neppure un pasto al giorno.
Dall’altro, anche se dalla crisi economico-finanziaria del 2008 ci sono stati alcuni miglioramenti, Confcommercio constata che la ripresa dei consumi degli italiani è rimasta per oltre un decennio fiacca, non toccando più i livelli precedenti al 2007.
Povertà strutturale e diffusa. Minor potere d’acquisto e salari al palo. Il mix perfetto destinato a frenare lo sviluppo dell’Italia.
A subire le conseguenze peggiori della povertà lavorativa dilagante e del rincaro dei prezzi sono i poveri. Secondo l’Istat infatti sono le famiglie e gli individui a rischio povertà che hanno subìto gli effetti più pesanti degli aumenti dei prezzi dei beni di largo consumo. Anche perché i poveri spendono la maggior parte dei loro redditi per acquistare beni di prima necessità.
Per questo motivo, giudico spregiudicata e sbagliata l’abrogazione del reddito di cittadinanza in un fase in cui, mettendo assieme i dati dell’Istat, della Caritas e della Confcommercio, emerge una Italia la cui ripresa resta disomogenea e praticamente a metà. Nel Mezzogiorno – spiega l’Istat – c’è la percentuale più alta di persone a rischio povertà ed esclusione sociale (40,6 per cento nel 2021).
LA TRAPPOLA PER I GIOVANI
Ho sempre denunciato, dati alla mano, che non intervenire al più presto sui salari significa privare soprattutto le giovani generazioni di un futuro migliore. Dal 1986 a oggi, è importante ricordarlo, gli under 40 possono arrivare a guadagnare fino a 20 volte meno di un over 60. L’ascensore sociale è sostanzialmente bloccato. Quasi un terzo degli adulti a rischio povertà proviene da famiglie che a loro volta erano in difficoltà economiche.
E così per chiudere il cerchio, riporto i dati di Almalaurea che conferma: “neppure la laurea oggi mette al riparo dal lavoro povero”. I numeri sono sconcertanti: un neolaureato italiano percepisce circa 1300 euro al mese; almeno tre volte meno che nel resto d’Europa.
In termini reali, i neolaureati hanno perso il 4-5 per cento del potere d’acquisto.
BUSTE PAGA AL PALO DA TROPPO TEMPO
Il fenomeno dei lavoratori poveri è internazionale. Da diverse ricerche e studi sappiamo con certezza che il numero di lavoratori esposti al rischio povertà è aumentato sensibilmente nel secondo decennio del secolo. Un rischio che, coerentemente al gender pay gap, colpisce in maniera più evidente le donne (27,8% vs 16,5%). Inoltre una bassa retribuzione riguarda sempre più spesso (53,5%) chi nell’anno lavora prevalentemente a tempo parziale e non risparmia neppure il lavoro parasubordinato e autonomo.
In Italia, però, c’è una anomalia. Nonostante la produttività che non ha affatto segnato lo stesso pessimo trend dei salari in termini nominali e reali, i livelli delle retribuzioni è tra i più bassi d’Europa e dei paesi industrializzati.
In Italia, infatti, la crescita del fenomeno dei working poor sembra essere oramai ben radicato. Oggi l’11,7 per cento dei lavoratori dipendenti percepisce un salario inferiore ai minimi contrattuali. Il dato è superiore della media dell’Unione europea, in cui si attesta al 9,6 per cento. Altro capitolo invece quello dei lavoratori autonomi. Il numero degli italiani oggi inquadrati come liberi professionisti è di circa cinque milioni, il più alto in Europa. Troppi i cosiddetti falsi autonomi che oltre a vivere nella precarietà percepiscono retribuzioni basse e aleatorie.
La misura più idonea a contrastare il lavoro povero è il salario minimo. La direttiva europea approvata in Europa nel 2022 prevede che, nell’ottica di garantire paghe dignitose, ogni Paese membro possa optare o per il salario minimo legale (ma a patto che sia pari almeno al 60% del salario mediano lordo) o per la contrattazione collettiva (a patto che copra almeno l’80% dei rapporti di lavoro). Inoltre, la legge europea prevede che il salario minimo, soglia al di sotto della quale non è lavoro ma sfruttamento, venga garantita a tutti i lavoratori. Dipendenti e autonomi, a coloro che attualmente in Italia sono scoperti dalla contrattazione collettiva. Sulla carta, il nostro Paese rispetta il parametro della contrattazione collettiva. Dico sulla carta, perché nella realtà dei fatti, proliferano moltissimi “contratti pirata” che in 15 anni hanno schiacciato verso il basso i salari.
LA PROPOSTA DI LEGGE DELLE OPPOSIZIONI
Davanti al rifiuto della maggioranza di governo di procedere a dare concretezza all’introduzione del salario minimo in Italia, le opposizioni (Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Azione e Più Europa) hanno risposto compatte e hanno avanzato una proposta di legge.
La proposta unitaria è nata per essere un punto di partenza per discutere e confrontarsi in Parlamento. Invece, il governo Meloni ha preferito alzare incomprensibili barricate, e puntare sulle fake news.
Al contrario di quanto afferma la maggioranza, la proposta di legge si muove nella direzione di conservare e rafforzare la centralità della contrattazione collettiva nazionale dei sindacati più rappresentativi per la determinazione del trattamento economico dei lavoratori.
Sono convinta infatti che non si possa e non si debba stravolgere dalla mattina alla sera il sistema di relazioni industriali basato sulla contrattazione collettiva. Le opposizioni infatti non hanno mai detto di volere porre fine alla contrattazione collettiva, come invece alcuni esponenti del governo hanno voluto far credere agli italiani e italiane anche con improbabili richiami alla pianificazione economica dell’ ex Unione Sovietica (!).
È solo giunto il momento di scegliere e di agire nell’interesse di milioni di lavoratori e lavoratrici che non arrivano alla fine del mese, perché working poor ma anche di altrettanti uomini e donne costretti oggi a percepire buste paga inique perché ben al di sotto della media europea nonostante qualifiche e competenze, e che per questo motivo si trasferiscono all’estero.
COSA PREVEDE IL TESTO
Nello specifico, la proposta delle opposizioni, definisce in modo certo ed eguale per tutti i rapporti di lavoro una retribuzione proporzionata e sufficiente, in modo che questa non sia inferiore al trattamento previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative.
L’introduzione di una soglia minima inderogabile (9 euro all’ora), è necessaria per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali è più debole il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali. Il salario minimo è una misura di giustizia sociale, urgente e necessaria, rinviata troppo a lungo. Basta perdere altro tempo prezioso. Aggiungo anche però che:
Al salario minimo va affiancata subito il salario equo. Per adeguare i salari anche dei lavoratori qualificati alla media europea, evitare che i giovani neolaureati e/o pluri-specializzati lascino l’Italia.
La proposta unitaria delle opposizioni rappresenta perciò un segnale positivo e concreto. Meno positivo invece quello lanciato dal governo che, dopo avere alzato le barricate, dopo averne dette di tutti i colori contro il salario minimo, ha chiesto un confronto estivo dal sapore propagandistico, per rimandare tutto a fine settembre.
LE MILLE GIRAVOLTE DEL GOVERNO
Quel che contano sono i fatti e i fatti ci dicono che il salario minimo è una misura attesa da tanti cittadini e cittadine, molti dei quali, 300.000, hanno già manifestato il loro supporto alla proposta firmando la petizione lanciata da tutte le opposizioni. Gli effetti positivi del salario minimo sono da tempo ribaditi da esperti e da economisti internazionali e persino Premi Nobel.
I no sono solo ideologici.
Secondo esperti ed economisti infatti il salario minimo ha “passato il test dell’alta inflazione” e “funziona perché riduce la disuguaglianza salariale senza penalizzare l’occupazione, anche se la produttività non viene incrementata”. Cosa aspetta quindi il governo?
Dopo improbabili barricate e giravolte, al tavolo dell’11 agosto scorso la decisione di Giorgia Meloni di passare la palla allo CNEL è piuttosto una presa in giro che una decisione politica. Lo CNEL infatti ha già varie volte espresso il proprio parere sul salario minimo. Ora avrà 60 giorni di tempo per esprimere l’ennesimo parere, già anticipato in una recente nota depositata in Parlamento. L’attuale Presidente dello CNEL, Renato Brunetta, aveva bollato il salario minimo come un errore.
L’ennesima giravolta dunque che non fa ben sperare. E mentre per il governo si avvicina l’autunno caldo della manovra economica che dovrebbe confermare il taglio del cuneo fiscale su cui Meloni punta tutto per mettere da parte il salario minimo, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ospite al Meeting di Rimini, ha fatto capire che le risorse non ci sono per fare tutto. Flat tax, Quota 103 o taglio del cuneo fiscale? Staremo a vedere.
L’ambizioso taglio del cuneo fiscale oggi al 7 per cento fino a dicembre 2023 è improbabile che possa essere confermato. A oggi pare manchino all’appello almeno 10 miliardi di euro.